di Luca Barbieri

AutonomiaOperaiaQuadrelli.jpgQui le precedenti puntate.

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Il Ritorno

Poi passano quasi dieci anni e Negri, nel 1997, decide di tornare per chiudere i conti con il passato. Ancor più di prima è lui il protagonista assoluto. Non c’è un solo riferimento ai suoi compagni di avventura di allora. Il ritorno è raccontato da tutti i giornali. Il Corriere ci descrive un uomo più rilassato, che incute sicuramente meno paura:

Venti anni fa, tutte le volte che si calava il passamontagna sul volto “sentiva il calore della classe operaia”. Questo raccontava il professor Toni Negri, docente di dottrina dello Stato all’università di Padova, Magister maximo di sovversione prima in Potop (Potere Operaio) poi in autonomia. Oggi ultimo giorno di esilio parigino — ben vissuto per sua stessa ammissione in Avenue Danfert Rocherau, ultimo piano, vista su Montparnasse, professore di economia e politica alla Sorbona — il passamontagna non c’è più. […] L’uomo è rimasto quello che era. Con una capacità, fuori dall’ordinario, di controllare le emozioni. Con la sua risatina improvvisa quanto nevrotica. Con gli occhi che si rimpiccioliscono a comando. Con qualche primavera in più alle spalle. […] Il professore veste come vestivano gli intellettuali del Sessantotto. I jeans, la camicia senza cravatta, la giacca. Forse sono diverse le scarpe. Oggi da vela. Allora non così di moda. La montatura degli occhiali è cambiata. Il fisico è sempre asciutto.

I comprimari

Nel caso 7 aprile, che non a caso a volte viene chiamato caso Negri, non c’è spazio insomma per altri attori. Tutta una storia, quella di un gruppo della sinistra extraparlamentare dalla vita travagliata e contraddittoria, viene presentata come un percorso diritto e incarnata direttamente in una persona. Potere operaio insomma come “one man band”. E poi tutta Potere operaio in Autonomia (il capo è sempre Negri). Non si possono neanche concepire percorsi personali differenti. Il percorso di Negri diventa forzatamente il percorso di tutti. E’ lui l’unico in grado di attirare l’attenzione dei media. Il cattivo maestro per eccellenza. Gli altri sono comprimari. Gli unici che reggono inizialmente il confronto sono Oreste Scalzone e Franco Piperno, «detto “penna continua”, dopo che dal carcere di Parigi non si stancava di scrivere una se non due lettere al giorno a quotidiani e settimanali» (Corriere della Sera, 22 dicembre 1979). Ma per gli imputati padovani non c’è speranza. O sono “bracci destri” di Negri (come Vesce e Ferrari Bravo che verranno sempre indicati, non si sa proprio perché, tra i massimi vertici della struttura) oppure persone comunque manovrate da lui.
Un’annotazione la merita in questo anche il comportamento di Negri stesso. Il professore sembra ci tenga ad apparire come la “prima donna della rivoluzione”. E come tale merita l’attenzione non solo dei quotidiani ma anche dei rotocalchi e dei settimanali popolare (Oggi, Panorama, Epoca, l’Espresso). Negri sembra l’unico in grado di poter parlare. Eppure, in questo speculare al suo antagonista Pietro Calogero, Negri gioca con le parole e le ambiguità. Mai una parola per i compagni di disavventura che non possono godere della stessa attenzione della stampa. Solo attenzione e esaltazione al proprio percorso, un sottile (e incomprensibile ai più) gioco teorico non per svelare l’infondatezza delle accuse, bensì quella del diritto dello Stato Italiano a giudicare. Un narcisismo che sicuramente ha contribuito a oscurare casi clamorosi completamente dimenticati in cella dalla stampa.

10. I Garantisti, i fiancheggiatori

Come abbiamo già potuto vedere altrove, la categoria dei cosiddetti “garantisti” viene tirata più volta in ballo. In sostanza, soprattutto per il PCI, ma anche da come viene interpretato il termine, ad esempio, da Ferrari (si veda l’intervista in appendice), garantisti è spesso sinonimo di fiancheggiatori. Nel 7 aprile, secondo i quotidiani, è un titolo che si autoattribuisce chi è contro l’inchiesta. Un modo per “mimetizzarsi”, con la scusa delle garanzie appunto. Una categoria che appare tutta interna alla sinistra.
Il garantismo è forse una delle vittime eccellenti del 7 aprile, schiacciato tra il disprezzo dell’Autonomia («Per noi Garantismo significa disarmo di fronte al nemico»), la sua svalutazione teorica (come ipocrisia della finta democrazia liberale) e la chiamata alle armi di comunisti e apparati dello Stato. Sarebbe interessante un confronto dell’uso che della parola viene fatto in questo caso e in quello di Tangentopoli.
Il ragionamento sottostante è tipico dei momenti di emergenza: un pericolo enorme minaccia la democrazia, chi non lo capisce e continua ad invocare le garanzie della difesa rischia di fare il gioco dei terroristi.
Infatti se è un nemico tanto pericoloso quello attaccato attraverso l’inchiesta, allora tutte le richieste che andranno contro i magistrati padovani altro non saranno che tentativi di reazione. E’ sempre Valiani, il 15 aprile sul Corriere, a parlarne. La richiesta delle prove è solo un tranello in cui i magistrati padovani fanno bene a non cadere:

Nell’attesa, diffidiamo delle proteste dei sostenitori o apologeti dell’eversione e delle smentite interessate, specie se provengono dai latitanti che, qualora fossero innocenti, si costituirebbero. […] Liberi i giudici di condannare od assolvere, secondo coscienza, secondo le prove che hanno o non hanno. Devono sentirsi liberi, altresì, dai ricatti. Non possono liberarsi invece, del rispetto del segreto istruttorio. Si devono respingere perciò gli ultimatum ricattatori coi quali gli estremisti ed i loro simpatizzanti fanno pressione sugli inquirenti.

Una specie di “nemico interno” (con tutte le conseguenze che ciò determina: infidia e sospetti) dal quale difendersi. Un insieme di singoli che con la continua e pressante richiesta di garanzie e di esibizione delle prove non fa altro che mettere in difficoltà l’inchiesta, ostacolare il lavoro dei magistrati.
Ma chi sono i garantisti per la stampa? In genere sono intellettuali che si possono dividere in due categorie. Ingenui, che credono veramente a quel che dicono ma non si accorgono di essere strumentalizzati, e i veri e propri fiancheggiatori, intellettuali che non credono affatto alla democrazia liberale e quindi usano strumentalmente il tema del garantismo per difendere persone che questa democrazia e questo sistema di garanzie vorrebbero sovvertire e sicuramente non per creare un sistema maggiormente garantista. Quindi il dilemma di fondo, detto poche volte perché in evidente contrasto con qualsiasi teoria democratica, è se si debbano o meno applicare le garanzie democratiche a persone che contro lo Stato e contro questa democrazia (spesso puntualizzata come “imperfetta ma pur sempre democrazia”) insegnano e agiscono. Questo è il vero punto. Il resto serve per fare arrivare il dibattito lì in modo non troppo brutale.
In quest’ottica rientrano alcuni “avvertimenti” agli stessi garantisti: la stampa esalta tutte le dichiarazioni degli imputati che dicono di voler sfruttare il garantismo senza crederci veramente (e in effetti, almeno per Negri, il garantismo non è altro che una finzione e una ipocrisia del sistema capitalistico).
L’Unità del 3 maggio 1979 ad esempio riporta alcuni brani di una lettera che Oreste Scalzone ha scritto al procuratore Calogero ed è stata pubblicata dall’Espresso. L’articolo “Oreste Scalzone fa sapere…” non è firmato.

Scalzone conclude dicendo di aver fiducia in un alleato di cui la democrazia, dice, stenta a liberarsi: il “garantismo” e i vincoli che esso impone. Si dice sicuro Scalzone che il “garantismo” è dalla sua parte, svelando con ciò tutta la limitatezza di certe concezioni della democrazia e delle garanzie democratiche. Che non sono un trucco, un incastro, uno strumento di azzeccagarbugli, ma un terreno sul quale la democrazia conta per difendersi, per crescere contestando anche quanti — autonomi o mafiosi — il “garantismo” intendono solo un varco per l’impunità.

Anche i titoli dell’Unità sono costruiti in modo da accostare sempre la parola garantisti a un’altra con carattere negativo: “Garantisti o neutrali?”, oppure “Garantismo o indulgenza?”.
Sull’Unità dell’8 maggio appare un articolo che apre la polemica con il Manifesto per i suoi dubbi a riguardo dell’inchiesta: «Che cosa c’entra con questa battaglia il “garantismo”? Forse che i terroristi che aspettano all’angolo di una strada per spaccargli il cranio con una spranga o i killer che uccidono spietatamente un magistrato o un operaio possono essere oggetto di indulgenza perché per trent’anni i governi democristiani hanno fatto e permesso ogni tipo di intrallazzo?»

Se poi, con la distribuzione di volantini intimidatori la categoria “Autonomi” si dimostra indegna di qualsiasi rispetto (l’Unità li chiama “belve”) allora la rabbia verso questi garantisti cresce ancor di più:

…innanzitutto a coloro che, di fronte all’inchiesta padovana e ora a quella genovese sull’uccisione del comunista Guido Rossa, hanno lanciato i loro strali sdegnati contro la criminalizzazione del dissenso. Da ferrei garantisti dovrebbero sapere che, in uno Stato di diritto, non possono esservi solo garanzie per l’imputato ma anche quelle per le fonti testimoniali. Attendiamo che alzino le loro proteste. Se taceranno, ognuno sarà autorizzato a pensare che, al di là delle chiacchiere li muove solo la speranza che l’intimidazione vada a segno, che la verità vada irreparabilmente inquinata o che, peggio, i meccanismi stessi della giustizia siano tanto ricattati da precipitare entro la logica di una guerra senza regole, proprio come vuole l’eversione.

Insomma i cosiddetti garantisti nascondono, tutti, ben altri fini. Con le scuse delle garanzie puntano invece allo sfascio del sistema. In questo sembrano essere accomunabili quasi alla categoria dei “traditori”, persone meno degne degli inquisiti perché non operano apertamente bensì fingono di stare da una parte mentre invece stanno dall’altra.
Un altro tema importante già emerso è quello delle “chiacchiere”: i garantisti sono in genere avvocati, intellettuali. Gente insomma che chiacchiera. Il Paese brucia per l’azione dei terroristi e questi chiacchierano. Mentre noi siamo in prima linea loro continuano a chiacchierare. Il termine non è sicuramente involontario né innocuo, nasconde invece una precisa concezione della categoria.

Ma la definizione dei garantisti è fatta anche di tante piccole frecciate, riferimenti a eventi che si sono verificati in passato. Come Sartori che il 2 dicembre 1979, nella sua intervista apparsa sull’Unità, fa riferimento all’inchiesta del ’73 sulla Rosa dei Venti. «Di quell’inchiesta — ricorda Sartori — non è rimasta traccia. Tutto a Roma e tutto insabbiato, cancellato. Anche allora si trattava di reati associativi, di un processo a un’organizzazione. Miceli certo non era andato a collocare bombe di persona, non aveva lasciato impronte digitali. Strano che alla magistratura romana sia mancato per quell’affossamento il plauso di certi garantisti». Questi garantisti di sinistra insomma si muovono solo per i “loro” bombaroli.

L’effetto dell’azione dei garantisti è deleterio non solo perché insinua il dubbio che l’azione della magistratura non venga condotta in maniera corretta ma anche perché rischiano di attivare tutte le lungaggini del sistema penale. Non c’è insomma bisogno di finti “garantisti” quando ci sono in campo già tutte le (eccessive) garanzie del nostro codice penale. Come scrive Sartori in occasione della decisione di reincarcerare cinque imputati (Bianchini, Di Rocco, Del Re, Tramonte, Serafini) il 23 aprile 1980: «Il meccanismo giudiziario, in questo caso, è davvero garantista fino in fondo».

11. Palombarini, il nemico interno

Anche la figura di Giovanni Palombarini che emerge dal racconto dei quotidiani si contrappone a quella di Pietro Calogero. Ma si tratta di una sorta di “nemico” interno, quasi di una talpa. L’atteggiamento della stampa nei suoi confronti è ondeggiante, ma raggiunge punte di estrema durezza in particolare sull’Unità. Bisogna ricordare che Palombarini per i cronisti è anche una fonte importante. L’Unità del 5 maggio 1979 riporta una lunga intervista con Nunziante. In realtà l’occasione istituzionale era data dalla conferenza stampa di Palombarini ma il quotidiano comunista decide di spostare completamente l’attenzione ignorandolo e dedicandogli solamente poche righe:

Palombarini ha aggiunto: “Domani depositerò i verbali di interrogatorio. Immagino che la difesa vi informerà sul loro contenuto, e penso che faccia bene. Questo è il tipo di processo in cui il segreto istruttorio è davvero pesante”. Difficile capire se da queste parole emerga un implicito giudizio dubitativo del magistrati sull’istruttoria o se sia solo la conseguenza di un atteggiamento da sempre tenuto da Palombarini nei confronti del segreto istruttorio considerato un elemento dannoso dei diritti a sapere e controllare dell’opinione pubblica. Ma in ogni caso il segreto istruttorio ci sembra un elemento da eliminare con avvedutezza, riformando anche i meccanismi del processo e il ruolo dei protagonisti: tant’è che il giudice Palombarini se n’è giustamente avvalso.

L’atteggiamento nei confronti del giudice istruttore non è insomma pregiudizialmente contrario. Si potrebbe definire quasi oggettivo, valuta volta per volta il suo comportamento e le sue azioni. Solo che la base del parametro non è se l’azione condotta sia o meno giusta o giustificata ma se sia o meno contro l’azione di Calogero, che è quindi assunto come parametro e misura della correttezza dell’azione. La stampa comunista non lo vede certo di buon occhio. Scrive Giulio Obici su Paese Sera già il 18 aprile: «Palombarini è oggi il giudice più chiacchierato di Padova. Un giudice discusso perché un anno fa prosciolse un gruppo di autonomi inquisiti da Calogero, tra cui lo stesso Negri». Ci si dimentica, per inciso, che era stato lo stesso Calogero a chiedere quel proscioglimento. Invece bene, molto bene, quando a fine maggio Palombarini nega la scarcerazione di Carmela di Rocco e Alisa Dal Re. Come scrive l’Unità del 19 maggio 1979:

Comunque, dalla decisione del giudice istruttore si deduce che l’istruttoria padovana è “forte”, basata su prove robuste. Il dott. Palombarini, si sa, è un noto “garantista”, per usare un brutto termine di moda..[…] Ora, se dopo questo lavoro la sua decisione è stata ugualmente negativa bisogna proprio pensare che nei confronti delle due donne (arrestate per associazione sovversiva e indiziate di banda armata) le prove esistenti siano realmente solide ed indichino tutto fuorché una “criminalizzazione delle idee”. In più, si può ricavare da questo episodio anche un ulteriore segnale di fondatezza dell’intera istruttoria, visto che la posizione delle due imputate è sempre stata presentata dalla difesa come la più marginale.

Il crollo della popolarità del magistrato avviene tra fine giugno e inizio luglio. Il ritardo con il quale Palombarini risponde alle nuove richieste di Calogero scatena la stampa. Ancora prima che il giudice istruttore decida la scarcerazione della Di Rocco e neghi i nuovi arresti, Pietro Calogero rilascia all’Unità (il 30 giugno) una durissima intervista. L’abbinata Sartori-Calogero crea quasi un mostro. Innanzitutto la chiacchierata con Calogero viene introdotta creando un quadro che faccia risaltare le conseguenze (per Sartori negative) del ritardo della risposta di Palombarini. I mandati di cattura, rivela l’Unità, devono colpire veri e propri killers. «In più, ma con minor certezza, un terzo elemento: la richiesta di mandato di cattura nei confronti di alcuni “killers” del terrorismo diffuso padovano per attentati specifici commessi tra il ’77 e il 78 (soprattutto numerosi ferimenti alle gambe)». Questa ”minor certezza” è proprio una bugia. Innanzitutto perché il processo padovano non ha visto imputato nessuno di omicidio. A meno che. A meno che l’Unità (come si intuisce dalla parentesi) non usi la parola killer non nel suo significato reale (ovvero l’esecutore di un omicidio, meglio se su commissione) ma in un significato più ampio di come uno che spara. Ma l’ambiguità gioca sicuramente alla costruzione del discorso. Ci sono dei killers che girano impuniti per Padova: la colpa è di Palombarini. Un giudice che deve essere anche un tipo scontroso visto che Calogero dichiara: «non c’è alcuna comunicazione con il giudice istruttore se non per iscritto». E poi l’esempio già citato. Palombarini non contesterebbe tutte le accuse ma solo «fatti specifici» omettendo invece il «reato associativo». «Sarebbe come se in un caso di omicidio ad un imputato venisse contestato il possesso dell’arma senza fare riferimento al fatto specifico che con quell’arma è stata uccisa una persona». Il paragone, a mio parere, non c’entra veramente nulla. Ma il discorso è chiuso e si potrebbe parafrasare, traendone le logiche conclusioni, grossomodo così: “ci sono dei killers che girano per Padova, io Calogero, voglio arrestarli, ma Palombarini, anche negli interrogatori, perde tempo: ha davanti degli assassini e invece di contestargli lo sparo contesta il possesso dell’arma da fuoco”. Ovviamente Pietro Calogero questo non l’ha mai detto, ma mettendo assieme i pezzi dell’articolo, questo è quello che il sottoscritto ha capito.
Al seguito di questa intervista il primo luglio il resto della procura si schiera. Repubblica prova a intervistare direttamente il giudice istruttore:

Sul citofono la targhetta dice: “Palombarini — Magistratura Democratica” perché il giudice istruttore è uno dei tre segretari di Md nel Triveneto. Appartamento al piano terra, gran confusione dei cinque figli che giocano a pallone nel corridoio, il giudice lavora sodo con il collega Fabiani e la moglie offre un grappino. Giudice dichiarazioni pesanti quelle di Calogero…”Io dico questo: l’istruttoria su Autonomia la stiamo facendo, stiamo per decidere sulle istanze di scarcerazione e sulle nuove richieste di Calogero”. Non ha aggiunto altro il giudice ma aveva l’aria preoccupata, perplessa, sorpresa, identica a quella di Fabiani. La decisione di scarcerare Carmela Di Rocco Palombarini non l’ha ancora presa, ma le pressioni e gli attacchi preventivi dei suoi confronti sono pesanti.

Sempre nello stesso pezzo, intitolato “Inchiesta su Toni Negri: magistrati in guerra a Padova”, vengono anche riportate le reazioni degli altri magistrati. Il giudice istruttore Nunziante (che immancabilmente nei quotidiani ha come attributo quello di essere stato «il giudice che assieme a Giovanni Tamburino riuscì a scoprire i segreti della Rosa dei Venti e di qualche Palazzo», uno in gamba insomma, un po’ come Calogero) lascia l’incarico perché «come impostazione delle inchieste io ho identità di vedute con Calogero, la penso come lui» e per comunicarlo a Palombarini ha preso carta e penna constatando «un insanabile dissenso in ordine all’impostazione generale del processo nelle sue linee generali e nelle tematiche fondamentali, alle modalità di assunzione di alcuni atti istruttori come ad esempio gli interrogatori degli imputati ed alcune determinazioni relative alla libertà personale di imputati e imputandi». Ma non è tutto:

Come si può capire la lettera di Nunziante non è certo all’acqua di rose. L’ultima mazzata però deve ancora arrivare: è quella che abbiamo appreso quando abbiamo chiesto l’opinione del procuratore della Repubblica Aldo Fais. “Sono molto amareggiato e preoccupato” sono state le sue ultime parole. “Il giudice istruttore Palombarini ha taciuto del tutto l’esistenza delle prove non le ha contestate agli imputati”…Ma queste sono le stesse accuse di Calogero…”Si le sottoscrivo”. E come si comporterà la procura della Repubblica? “Quasi fossimo seduti sulla riva di un fiume, aspettiamo la decisione di Palombarini — è stata la risposta di Fais — Io mi limito ad osservare che Calogero, per iscritto, ha chiesto al giudice istruttore di contestare prove che poi non sono state contestate. In attesa della decisione di Palombarini ovviamente ci riserviamo il potere di impugnarla davanti alla sezione istruttoria della Corte d’Appello di Venezia.

A parte l’accostamento con il Siddharta di Hermann Hesse, Fais colpisce sia per la durezza dell’attacco, sia per il totale appoggio a Calogero. Lo scontro prefigurato, quello del ricorso alla Corte d’Appello di Venezia, sarà un tormentone della vicenda processuale.
Ma anche non citato, Palombarini entra in numerosi articoli. Di fronte al terzo blitz di Pietro Calogero, Michele Sartori ne approfitta per una piccola stoccata a Palombarini. «Certo che stavolta l’imputazione è pesante: per tutti, banda armata (mentre l’ufficio istruzione ha concluso una istanza istruttoria sui “vertici” mantenendo solo il reato di associazione sovversiva)». L’ennesimo blitz è per Sartori la riprova dell’esistenza di una banda armata. L’istruttoria di Palombarini più che essere “stanca”, stanca e basta.
Ma quando il 28 marzo Palombarini contesta a nove persone l’accusa di banda armata l’Unità esulta e cambia registro. Sembra di assistere all’uso di carota e bastone. Se Palombarini fa il bravo allora se ne scrive bene:

Vale la pena di sottolineare che per tutte queste nove persone il PM Calogero aveva chiesto a Palombarini d’emettere mandato di cattura per banda armata fin dallo scorso giugno. All’epoca Palombarini rifiutò il provvedimento (pende ancora un ricorso del PM in Corte d’appello). Pochi giorni fa, stavolta sulla base delle nuove testimonianze e di prove di reati gravissimi commessi dagli stessi imputati, Calogero aveva ripetuto la richiesta; ora il giudice istruttore l’ha accolta. […] Ora, se il giudice istruttore, come sembra certo, ha aderito per la prima volta a questa impostazione, superando così tutte le sue fortissime remore precedenti (fino a tre mesi fa, quando chiuse il 7 aprile, secondo Palombarini, Autonomia era un’associazione sovversiva sì ma priva di cervelli, scarsamente organizzata, limitata alla sola città di Padova e soprattutto scollegata da qualsiasi livello armato) significa che il materiale raccolto dalla Procura con l’inchiesta sfociata negli arresti dell’11 marzo è davvero forte. E vuol anche dire che il processo 7 aprile, unificato alla nuova istruttoria, potrebbe ricevere quel necessario impulso inquisitorio che finora gli era troppo spesso mancato.

Per Ferrari del Corriere Palombarini è un magistrato onesto. «”L’11 marzo ci ha aiutato a capire meglio la realtà”, dice con onestà, il giudice istruttore Giovanni Palombarini»
Invece per l’Unità Palombarini è una sorta di bestia nera. Le sue tesi vengono esposte (a volte molto succintamente) per poi commentare che esse sono «superate in ogni sede giudiziaria». Nel documento di Palombarini «ovunque ricorrono, oltremodo esplicite e personalizzate, le differenze profonde di analisi e di conclusioni fra il giudice istruttore e il PM» (Unità 10 settembre 1981). Quell’”oltremodo”, di cui si sente tutto il significato letterale, sembra indicare una certa maleducazione. Le differenze, rese così esplicite e poi personalizzate stanno ad indicare una chiara mancanza di stile. Ma se ricordiamo bene è stato Calogero semmai ad attaccare, lì sì esplicitamente (cioè in pubblico con una chiacchierata) e personalmente, nell’intervista del 30 giugno ’79, il giudice istruttore. Sartori non può non saperlo o non ricordarlo. Quell’articolo lo ha scritto lui.

12. Non si vedono ma ci sono. Le prove e il superteste tra fede e indiscrezioni

Non si vedono ma ci sono. Un giornalista solitamente dubita sempre di ciò che non vede. Nel 7 aprile invece sembra che spesso il non aver ancora visto le prove (che solitamente sono tenute in serbo dai magistrati per occasioni più importanti, si veda ad esempio il titolo dell’Unità del 23 aprile 1979: “Non ancora esibite le prove più forti contro Negri”) equivalga a prova certa della loro esistenza.
E poi se non ci fossero le prove, i magistrati sarebbero dei pazzi. Quindi le prove ci sono.

Le prove, ecco il punto. “Ma voi le prove le avete?” è stato chiesto per la centesima volta al procuratore Fais. Risposta: “Si, abbiamo prove”. “Prove testimoniali o prove documentali?”. “Prove, prove, prove. Ci prendete forse per una congrega di pazzi? Pensate veramente che avremmo firmato ordini di cattura con accuse tanto gravi soltanto sulla base degli scritti di Toni Negri? Andiamo, signori. Calogero ha studiato e indagato per anni prima di scoprire chi c’è a capo del terrorismo nazionale. Certo, voi vorreste sapere tutto. Saprete! L’opinione pubblica saprà”.(Corriere della Sera, 13 aprile 1979)

Lo schema è quasi idealtipico. Si espone l’ipotesi accusatoria, si dice che al momento non sono ancora state esibite le prove perché vengono tenute in serbo per chissà quale occasione e si chiude con una frase di circostanza che professa la fede del cronista. Il che porta a formulare affermazioni assolutamente insensate.
«Ma l’ipotesi dei magistrati è evidentemente sostenuta da solide prove» (Unità — 22 aprile 1979).
Martedì 24 aprile 1979 l’Unità apre così: “Gallucci: «Le prove ci sono e ne stanno emergendo altre». Nell’articolo si legge che dalla

“copiosa documentazione sequestrata” continuano ad uscire cose compromettenti per il docente padovano. Anche qui c’è un’implicita risposta ai legali della difesa, i quali fino all’altro ieri hanno ripetuto che le contestazioni a Negri sono di carattere puramente ideologico[…] il giudice Amato ha fatto mettere a verbale questa premessa: “Non si ritiene allo stato di elencare tutti gli elementi di prova per non pregiudicare l’istruttoria”. E’ una facoltà, questa, che gli inquirenti traggono da un articolo del codice di procedura penale (il 367). Da qui sembra di capire che, finora, i magistrati non hanno scoperto le loro “carte” più forti, cioè le testimonianze raccolte durante l’inchiesta svolta a Padova.

Il ragionamento è sempre quello e verrà ripetuto più volte: se i giudici non hanno ancora esibito le prove che inchioderebbero definitivamente Negri come mente del terrorismo italiano è semplicemente per un calcolo strategico. Chi non lo capisce è tutto sommato un po’ “sciocco”, non ha capito il gioco dei giudici e, ovviamente, rischia di fare il gioco degli imputati alimentando un clima di sospetto che non giova all’inchiesta.

Una stampa con molta fede

Tanto che credere o meno nell’esistenza delle prove diventa a questo punto un atto di fede. Lo spiega bene Ferrari sul Corriere del 6 maggio quando riporta il testo di un’intervista rilasciata a Repubblica da Calogero. «I casi sono due: o crediamo al PM Calogero, ingegnere dell’inchiesta sugli ideologi dell’Autonomia e sui presunti capi delle Brigate Rosse; oppure non ci crediamo.[…] Non ha ancora aperto il libro delle prove, dei documenti perché — ha detto — “non è ancora il momento”. E quando cocciutamente, gli è stato chiesto “per quale motivo” il giudice ha risposto: “aspettate e vedrete”». Il titolo del pezzo dal quale sono state tratte queste righe è: “Le prove contro i capi di Autonomia? Aspettate e vedrete, dice Calogero”. Un atto di fede insomma. E sostanzialmente, la stampa è credente. Tanto che, per rimanere con i piedi per terra legati ai fatti, i giornalisti sono costretti all’esegesi delle parole del procuratore leggendoci, inevitabilmente un segno, un accenno, all’esistenza delle prove.
Ad esempio Calogero dice che dell’inchiesta su via Fani «Non tutto tornerà a Padova»? I giornali, tutti, traducono «le prove per il delitto Moro ci sono ma non potete conoscerle ora».
Le prove sulla responsabilità nell’omicidio Moro? «L’elemento delle telefonate -dice Calogero a Repubblica il 6 maggio del 1979 – non è il solo: ci sono altre cose, ben più gravi e importanti».
Insomma si assiste, in mancanza sostanziale di elementi ma con un’incrollabile fede in essi, nell’esaltazione della strategia inquirente che giustifica ex post qualsiasi cosa. A fine maggio ancora non vengono contestate le prove più forti? «A livello confidenziale poi viene data un’altra spiegazione: se ogni parola che contestiamo agli imputati — dicono — finisce sulle pagine dei giornali perché i legali violano sistematicamente il segreto istruttorio è logico che, come minimo, prima di contestare per intero un documento dobbiamo avere il tempo di controllare tutte le implicazioni che esso può contenere, eventuali nomi nuovi, circostanze, date, senza far conoscere in anticipo le nostre mosse» (Unità del 27 maggio 1979). Palombarini non scarcera la Di Rocco e la Del Re. Da questo, scrive l’Unità, « si deduce che l’istruttoria padovana è forte e basata su prove robuste».

Il supertestimone nel cassetto

Si è così convinti della palese colpevolezza degli arrestati che i cronisti si sorprendono spesso della poca fiducia che gli stessi imputati hanno verso gli inquirenti. «Ci sono — e sono evidenti — i tentativi di svuotare di ogni attendibilità il testimone che i magistrati agitano ad ogni interrogatorio. Tutti — forse immaginando di chi si tratta — ieri si diceva che potrebbe essere una donna, ex di Potere Operaio poi militante del PC — negano che i racconti fatti ai giudici siano credibili, bollandoli “come un coacervo di sconnesse e avventurose informazioni”». (Corriere 6 maggio)
Mancano le prove quindi. E sulle accuse iniziali continueranno a mancare. Ma i giornali piuttosto che fermarsi e riflettere, rivedere il proprio orientamento, continuano questa sorta di buffa arrampicata sugli specchi confondendo accuse con indizi, l’effetto con la causa.
«La comunicazione giudiziaria di per sé non prova nulla, questo è ovvio. Ma il fatto che i magistrati inquirenti leghino il nome di Negri a delitti nefandi come l’assassinio di Campanile e il sequestro e l’uccisione di Saronio, sta ad indicare che, per l’accusa, la posizione del docente di Padova si è ulteriormente aggravata» (La Stampa, 23 dicembre ’79).

Le indiscrezioni

Mancano fatti certi è vero, ma in compenso dilagano voci e indiscrezioni. Il loro ruolo è veramente fondamentale se si vuole capire la costruzione della narrazione. I quotidiani le indiscrezioni le riportano fin dall’inizio. Il 1979 è un’indiscrezione continua. L’Unità del 18 aprile 1979, pagato pegno alla decenza, definendo “palazzaccio” il luogo da cui provengono le indiscrezioni ci si getta a capofitto. Le indiscrezioni diventano vere e proprie accuse contribuendo a costruire il ritratto degli indagati.

Gli inquirenti avrebbero in mano scritti di Toni Negri che niente avrebbero a che fare con le sue elaborazioni ideologiche […]; questi documenti sarebbero stati nascosti dal docente padovano una settimana prima del suo arresto, ma sono stati ugualmente rintracciati dalla polizia; c’è un’inchiesta parallela tendente ad accertare chi fu a mettere in allarme Toni Negri, inducendolo a far sparire i documenti più “scottanti”: i sospetti — a quanto sembra — cadrebbero sugli stessi ambienti giudiziari di Padova. […] Una settimana prima che il sostituto procuratore Pietro Calogero dia il via agli arresti, accade un episodio a dir poco singolare. Toni Negri è nel suo studio, alla facoltà di Scienze Politiche di Padova. Riceve una telefonata importante: qualcuno lo avverte che il terreno sta per franargli sotto i piedi. Il docente corre ai ripari: raccoglie in una cassetta metallica un pacchetto di documenti che custodiva in facoltà, va da un conoscente, un professionista padovano e chiede di conservargli tutto senza spiegargli il perché. Questi “aiuti” di cui ha potuto godere il docente padovano sono ora oggetto di un’inchiesta parallela. Secondo alcune voci, i sospetti sarebbero caduti proprio sugli ambienti giudiziari di Padova. E’ un capitolo inquietante ancora aperto. […] Cosa contiene la cassetta? Ancora indiscrezioni: non si tratterebbe di scritti che riguardano gli studi e le elaborazioni ideologiche del docente, sarebbero invece appunti contenenti indicazioni operative, considerazioni logistiche su azioni armate delle Brigate Rosse, progetti che dimostrerebbero — secondo gli inquirenti — il passaggio di Toni Negri, come si dice, dalla teoria alla prassi. […] Ce ne sarebbe una abbastanza sconcertante: negli ultimi tempi, secondo quanto accertato dalla polizia, il docente padovano avrebbe simulato frequenti viaggi a Parigi. Spesso avrebbe addirittura acquistato i biglietti del treno o dell’aereo per la capitale francese, mostrandoli con indifferenza ad amici e conoscenti: ma ogni volta gli agenti che pedinavano da tempo Negri avrebbero constatato che si spostava soltanto sul territorio nazionale.

Per il Corriere «tra i documenti messi in salvo da Negri c’è chi sostiene che ci sia una bozza di manuale operativo delle BR scritta di pugno dall’imputato».
Quasi tutto falso, come dimostreranno le indagini e, soprattutto, tutto rivelato prima che Toni Negri venga interrogato a proposito due giorni dopo. La montagna di indiscrezioni contribuisce però ad aumentare la sensazione che gli inquirenti abbiano in mano prove inconfutabili che porteranno al riconoscimento del professore padovano come la mente delle BR e il suo passaggio alla storia come una delle menti più diaboliche delle forze del male. Ma vediamo una ad una le indiscrezioni per provare a smontarle.
La questione della “cassa” (metallica poi! si scoprirà che si tratta di semplici raccoglitori) in cui Negri avrebbe nascosto le carte più “scottanti” si chiarirà in ben poco tempo. Negri, nell’interrogatorio del 20 aprile 1979, spiegherà così la vicenda:

Le documentazioni in questione furono da me consegnate all’architetto Massironi. Prima le tenevo nella mia abitazione; quando mi trasferii nel ’72 a Milano depositai la documentazione presso la facoltà di Scienze Politiche nell’Università di Padova. Successivamente dato che si verificavano alcune occupazioni, per evitare che si potessero disperdere pregai l’architetto Massironi — che ha lo studio dirimpetto all’università — di conservarle lui. Quando venni a sapere che le documentazioni erano state sequestrate per il tramite dell’avv. Berti di Padova, feci sapere al PM dott. Calogero, che era mia intenzione presentarmi davanti a lui per chiedergli la restituzione del materiale e per dare eventuali chiarimenti. Al riguardo faccio presente che avevo raccolto numerose documentazioni concernenti gli anni 60 e riguardanti la storia di movimenti politici italiani. Quindi avevo fatto donazione delle documentazioni a una fondazione. Avevo successivamente iniziato a raccogliere le documentazioni del periodo degli anni 70 che mi servivano per la “lettura quotidiana” dei movimenti di classe operaia, e che potevano servire per una lettura collettiva. Era anche questa volta mio intendimento effettuare una donazione di queste documentazioni ad una fondazione (27).

Tutto confermato successivamente dal diretto interessato. E i documenti “scottanti” ritrovati nell’archivio Massironi, stando ai verbali degli interrogatori, sono, senza voler entrare nei contenuti, nell’ordine: un documento dal titolo “Potere Operaio. Proposta di documento nazionale sulle scadenze del 72”; dattiloscritto dal titolo “Lama, Benvenuto, Macario” (poi pubblicato su Rosso); dattiloscritto dal titolo “tesi operaia sulla lotta e sulle organizzazioni (poi pubblicato su Rosso); manoscritto dove si accenna allo stravolgimento e all’attacco della rappresentanza sindacale; dattiloscritto dal titolo “Bozza orientativa per la costruzione di un coordinamento operaio” (di cui Negri sostiene di non essere l’autore); manoscritto dove tra l’altro è scritto “la ronda — la brigata — la guardia rossa in scarpe da tennis”; una lettera nella quale il mittente concorda con Negri sulla funzionalità pratica delle ronde — dattiloscritto che inizia con la frase “come nel 77….” (bozza di un articolo poi pubblicato su Rosso n15-16); altre lettere; appunti e volantini etc etc.
Tutto questo per dire che i documenti tratti dall’Archivio Massironi, pur non volendone assolutamente giudicare la validità giuridica, non contengono affatto come indicato dall’Unità «indicazioni operative, considerazioni logistiche su azioni armate delle Brigate Rosse, progetti che dimostrerebbero — secondo gli inquirenti — il passaggio di Toni Negri, come si dice, dalla teoria alla prassi».
Ma l’articolo in questione presenta altri fatti di rilievo dal punto fabulistico. Innanzitutto introduce la figura della “talpa”, un amico fidato di Negri che dall’interno dell’ambiente giudiziario padovano lo avvertirebbe in caso di pericolo. E’ un elemento che accresce ulteriormente la sensazione di accerchiamento, di pericolo reale per gli inquirenti coraggiosi che stanno investigando sul 7 aprile. Il nemico interno anche come sintomo di una struttura terroristica avanzatissima. Ma la talpa, ci dice la stampa, sarà scoperta da un’inchiesta della magistratura. Che fine ha fatto questa inchiesta? L’Unità stizzita, riportando le “smentite ufficiali” nega la sua esistenza. C’era veramente la “talpa”, la spia? Chi interpretava questo spregevole ruolo? La stampa italiana non ce lo dirà mai. Quello che rimane è solo il sospetto.
Un’altra questione, quella dei frequenti viaggi a Parigi. L’Unità innanzitutto evita di ricordare ai lettori che Negri insegna anche in Francia, elemento che farebbe apparire meno stramba la faccenda. C’è poi quel particolare: Negri che mostra “con indifferenza” i biglietti a amici e conoscenti. Evidentemente per seminare, previdente, alibi a futura memoria. Sempre diabolico. Un’ultima osservazione in merito. Non era possibile per redazioni come l’Unità o il Corriere fare una telefonata a Parigi per accertarsi se il professor Negri l’ avesse o meno raggiunta di recente? Era l’unica cosa originale che potessero fare, per aggiungere qualcosa di veramente giornalistico a una serie di indiscrezioni che non trovano nella coscienza dell’articolista nessun argine. Si spinge ancora più in là, sullo stesso argomento, Repubblica che ipotizza un diretto collegamento tra la necessità di un alibi e i giorni del sequestro Moro. «Poiché si parla di Parigi c’è la storia del biglietto aereo. Toni Negri — assicurano — ne acquistò uno per il 16 marzo del 1978 ma non lo utilizzò. Che significa? Nessuno lo dice, tuttavia l’insinuazione è chiara: il 16 marzo di un anno fa, fu sequestrato Moro e il “direttore strategico delle BR” tentò di crearsi un alibi, restando sulle rive della Senna, per guidare al sicuro la “operazione” anche se poi, in quegli angosciosi e disperati 55 giorni, di viaggi tra la Francia e l’Italia ne fece non pochi» (da Repubblica, 19 aprile 1979)
Anche al Corriere, pur se con stile migliore, le indiscrezioni costituiscono una delle maggiori fonti del lavoro giornalistico. Come si riconosce il 19 aprile 1979 «L’inchiesta sul caso Moro all’indomani della svolta padovana, continua ad essere caratterizzata dall’assenza totale di notizie certe. In questo vuoto, come sempre avviene, si inseriscono con estrema facilità, indiscrezioni a getto continuo». Il Corriere insomma dubita, ma non per questo seleziona. Anzi se possibile le indiscrezioni riportate superano per quantità quelle dell’Unità. Tutte riportate salvo avvertite in calce «Impossibile per il momento stabilire quanto ci sia di vero» oppure avvertendo che «anche dando per buona l’indiscrezione, si tratterebbe comunque di una affermazione generica e non dimostrata». E poi dissertare per una trentina di righe su un documento ritrovato a Roma per mettere tra parentesi «(sulla cui autenticità i carabinieri hanno espresso forti dubbi)» e riportare fedelmente che, sul ritrovamento dello stesso, si è subito innestata un’altra voce incontrollata. Insomma, in assenza di certezza, i quotidiani dell’aprile e del maggio del 1979 sono un continuo rincorrersi di voci.

L’unico quotidiano che segue con una certa curiosità fino in fondo queste strambe voci è il Manifesto che riferisce come «i documenti non erano conservati in una cassa, come spesso si è scritto, ma in alcuni raccoglitori che erano nella libreria dell’architetto» e che «anche la contestazione riguardante il biglietto ferroviario comprato il 16 marzo dello scorso anno (quello stesso di Repubblica) si è rivelata inesistente. Negri lo aveva comprato quel giorno e usato il 22 dello stesso mese. Il viaggio era per Aix-en-Provence, dove Negri aveva tenuto una lezione. I magistrati non avevano ben letto il testo francese e così era uscita la voce dei biglietti comprati e mai usati» (dal Manifesto del 24 aprile 1979).

NOTE

(27) Comitato 7 aprile e collegio di difesa, a cura di, Processo all’Autonomia, Cosenza, Lerici, 1979, p.135.

(21-CONTINUA)