di Luca Barbieri

Autonomi.jpgQui le precedenti puntate.

c) 2002 – Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

3. Il problema linguistico

Alla base del processo 7 aprile (non solo della sua analisi attraverso i quotidiani) c’è un importante problema linguistico. Il pubblico ministero Pietro Calogero fonda, come si sa, parte delle sue ipotesi accusatorie sulla lettura di documenti programmatici di Potere operaio e di Autonomia operaia. Una lettura che si potrebbe definire “letterale”. Dove parlare di “ipotesi insurrezionale” non è la prospettiva teorica di un movimento comunista ma il progetto di una insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Un processo che quindi, per alcuni osservatori, si fonda su una specie di “equivoco”.

Il linguaggio di Potere Operaio
Il linguaggio dei gruppi extraparlamentari che nascono nella seconda metà degli anni Sessanta è un linguaggio particolare che può essere esaminato attraverso una prospettiva sociolinguistica. A sinistra, come abbiamo visto, i gruppi si aggregano e sviluppano le proprie elaborazioni teoriche attraverso riviste. Queste rappresentano la maggior testimonianza del loro linguaggio. Dal punto di vista linguistico siamo di fronte alla nascita di veri e propri sottocodici che servono all’identificazione sociale del gruppo.

Fin dai suoi primi avvii la stampa dell’estrema sinistra fa uso di una lingua circoscritta e per molti aspetti semplificata che deriva dall’uso a parlare per slogan e dalla inevitabile tendenza marxista a dicotomizzare la realtà. Il fattore ideologico ha importantissime ricadute sul modo di esprimersi. All’interno del complesso movimento della sinistra extraparlamentare, Potere operaio esprime una tendenza opposta. I suoi componenti hanno l’ambizione operaista di sviluppare un’analisi scientifica e rigorosa dell’economia italiana (pur concentrandosi quasi esclusivamente sulla realtà della grande industria). La rivista del gruppo, Potere Operaio, che in questo si ricollega alla precedente esperienza dei Quaderni Rossi, assomiglia più a una rivista scientifica che a l’organo di un gruppo politico. Una rivista teorico-politica assolutamente indifferente alla cronaca. Questa accentuazione del carattere teorico di Potere operaio porta ad una quasi assenza di un codice narrativo, codice legato ad una scrittura brillante e vivace, normalmente molto utilizzato da tutti i quotidiani tradizionali. Tale esclusione «ha un riscontro a livello lessicale, nel rifiuto dei traslati brillanti, delle espressioni fortemente emotive e di quelle formule di intrattenimento che servono di volta in volta ad attualizzare o drammatizzare il tono del discorso» (29).
Al codice narrativo vengono preferiti il sottocodice politico-ideologico e quello economico. Soprattutto quest’ultimo viene usato in maniera abnorme.
A differenza degli altri gruppi «è interessante rilevare come Potere Operaio utilizzi correntemente quella base di vocaboli permanenti, propri del discorso politico tradizionale, la cui origine è da ricercare nella nascita del sistema parlamentare, e nel formarsi del pensiero politico borghese nel corso dell’800» (30). Ma questo uso nasconde in sé un tranello. Infatti la rivista non utilizza questi vocaboli nel loro senso classico ma li “ridefinisce”. Tanto che «una semplice analisi lessicale che non si estenda al sistema di connotazioni dato dall’insieme di tutti gli elementi del testo, sarebbe insufficiente» (31).
Il processo è molto diffuso nel lessico politico così che i confini sono estremamente elastici e imprecisi, attraversati da una grande ambiguità. Nel suo complesso Potere Operaio non è una rivista accessibile al lettore medio, anzi delinea nel gruppo quasi una “casta”. «Il linguaggio di Potere Operaio tende a porsi come un sistema chiuso caratterizzato da formule e schemi espressivi ricorrenti, con regole di formazione e di lettura fissate in modo rigoroso e generalmente piuttosto lontane dalla lingua media comune. Tale tendenza all’ufficialità e al tecnicismo può determinare quello che è stato definito un sottocodice burocratico» (32).
Contrariamente a quanto desiderato, Potere Operaio finisce quindi per creare un linguaggio di gruppo, a circolazione interna, condiviso e compreso solo dagli appartenenti. «In Potere Operaio l’uso di tale linguaggio (burocratico e tecnicistico) non è finalizzato né al discorso reticente, né all’occultamento della realtà, quanto piuttosto all’affermazione di una propria individualità elitaria di gruppo, ricercata anche attraverso un linguaggio chiuso e specialistico. Si può forse parlare di “aristocrazia teorica”, riconducibile alla matrice originaria del gruppo; e sottolineata dall’uso di tecnicismi ed espressioni astratte» (33).
La chiusura del gruppo tende a riflettersi nel linguaggio che si evolve sempre più verso un atteggiamento trionfalista assolutamente ingiustificato. C’è una netta divaricazione tra linguaggio e realtà che si accentua man mano che la prospettiva del partito diviene sempre più irrealizzabile. Questa tendenza all’autosopravvalutazione teorica si riversa, con Negri, in Rosso.
Quali sono le conclusioni sull’analisi linguistica di Potere Operaio tratte da Patrizia Violi?

Gli aspetti più rilevanti e tipici del linguaggio di Potere Operaio sembrano essere essenzialmente due: un processo di stereotipizzazione dei modi espressivi che tendono a sclerotizzarsi in formule fisse, con significato rigidamente prefissato, ed un elevato livello di complessità di lettura. […] Esso tende così a comporsi come un linguaggio chiuso, un linguaggio teorico di formulazione che si appoggia sull’uso di “parole-termini” e “frasi-giudizi”, senza rifarsi direttamente alle circostanze extralinguistiche (corsivo mio), ma essenzialmente al contesto linguistico. […] Si crea un’artificiosa separatezza fra il mondo comune e quello dell’elaborazione politica, che viene così collocata ad un livello elevato e rarefatto, lontano dall’esperienza di tutti i giorni, parlato da un’altra lingua, diversa e prestigiosa. […] Il processo di sterotipizzazione del lessico si attua in Potere Operaio ad un livello elevato di astrazione, con una preminenza data all’analisi teorica in funzione di un discorso che dia la massima garanzia di scientificità. (33)

La domanda da porsi è quindi: come si devono leggere a anni di distanza questi documenti? Come suonano i brani di Potere Operaio scritti nel ’71 alla fine del decennio? e agli inizi del 2000?
Il pubblico ministero Calogero decide di leggerli letteralmente. «Questo metodo, secondo Palombarini, è invece “da rifiutare in linea generale” e, soprattutto “nel caso in specie, ove l’ambivalenza della parola politica è massima” […] Il PM finisce spesso per attribuire valore di realtà ad espressioni puramente ideologiche» (da un articolo dell’Unità del 10 settembre 1981).
L’analisi di Patrizia Violi sembra privilegiare il secondo approccio. Per fare un esempio: dove Calogero vede nel termine “militarizzazione” un discorso organizzativo concreto volto all’insurrezione, la Violi vede invece un tipico esempio di «tecnicismo teorico» segnalato dalla predominanza del termine astratto su quello concreto.

E’ ovvio che il fatto che un nodo simile non venga mai definitivamente sciolto finisca per influenzare chi, come i giornalisti, con le parole lavora. E si trova a dover quindi trattare come elementi di prova altre parole, frasi ed enunciazioni che a un estremo, possono apparire come i deliri di gente assolutamente staccata dalla realtà, e all’altro sembrare l’enunciazione di un programma terrorista che ha poi trovato concreta applicazione.
La questione insomma non è secondaria e non poteva certo essere ignorata.

Per esaltare l’importanza del fattore linguistico si è anche tentato di tracciare un piccolo vocabolario delle espressioni che maggiormente hanno influenzato la narrazione di questo caso giudiziario. Un modo per ripercorrerne la storia e valutare, a vent’anni di distanza, le implicazioni che il loro uso massiccio ha determinato sull’intera lettura del fenomeno.

Autonomia operaia organizzata. Secondo l’ipotesi accusatoria l’Autonomia non è solamente operaia, ma è anche “organizzata”. Anzi, secondo gli inquirenti, bisogna fare attenzione a distinguere: da una parte c’è il movimento dell’Autonomia, dall’altra l’Autonomia operaia organizzata che ne sarebbe il livello clandestino, organizzatore degli attentati terroristici. Spesso si parla anche di Organizzazione con la “O” maiuscola, e di Autonomia con la “A” maiuscola per distinguerla dal movimento. E’ difficile sostenere che l’espressione Autonomia operaia organizzata abbia voluto dire sempre, nel corso degli anni, la stessa cosa: pur assumendo l’ipotesi dell’esistenza di un’organizzazione clandestina, anche qui le gradazioni possono essere differenti. Si va da una definizione estensiva, cioè l’organizzazione che coordina il terrorismo italiano, a una più debole, per indicare solo quelle bande armate (come il FCC) all’interno dell’area dell’Autonomia. Il problema è che l’uso non è per nulla univoco. Nel corso del 1979, grazie alla pubblicizzazione della ipotesi investigativa del PM Calogero, ogni volta che se ne parla, l’Autonomia operaia, che compare sui quotidiani, è sempre “organizzata”. Questo avviene anche con il processo. Durante il suo svolgimento l’Autonomia di cui parlano avvocati e inquirenti è appunto quella del livello clandestino. La cosa non è di poco conto. Se infatti non v’è dubbio che esista un’area chiamata Autonomia operaia, non c’è nessuna concordia sul fatto che sia esistita un’organizzazione (anzi, una super-organizzazione) nominata Autonomia operaia organizzata. Questa è solo una delle tesi in campo. C’è anche chi dice, come il giudice Palombarini, che sì, ci furono dei tentativi per dare una struttura comune a questo magma di gruppi e collettivi, si elaborò anche l’espressione “Autonomia operaia organizzata”, ma essa non ebbe in sostanza mai nessuna realizzazione concreta.
Dal punto di vista storico “Autonomia operaia” è una teorizzazione sviluppatasi a livelli consistenti già con i Quaderni Rossi all’inizio degli anni Sessanta. E’ indubbio che oltre a essere un concetto, un’elaborazione teorica, “Autonomia operaia” finisca per divenire anche uno slogan.
Come abbiamo visto la stampa fa una grande confusione: è praticamente impossibile anche stabilire quando l’espressione Autonomia, nella titolazione ad esempio, venga usata per indicare l’area di autonomia oppure la supposta organizzazione criminale. Fatto sta che la stampa, senza alcuna distinzione, fatto salvo il Manifesto, utilizza di principio, quando ne ha lo spazio, l’espressione “Autonomia operaia organizzata”. Oppure, si trova spesso anche la versione “autonomia organizzata”. Espressione che denota appunto una tesi investigativa, una delle ipotesi in campo, non una realtà storica condivisa e sbilancia quindi tutto il discorso a vantaggio dell’accusa.
Infine, un’osservazione: mi sembra che dal punto di vista linguistico la vicenda 7 aprile abbia contribuito in maniera determinante alla scomparsa del concetto teorico di “autonomia operaia”. In pratica l’espressione indica oramai un’area sociale, o piuttosto un’organizzazione. Ma per chi non ha, o per età o per interesse, memoria storica di questo percorso sembra oramai difficile risalire al concetto teorico.

Il Partito armato. L’espressione viene usata dai quotidiani per indicare l’insieme delle organizzazioni terroristiche clandestine o semi-clandestine di sinistra che hanno fatto uso di violenza in Italia negli anni Settanta. Il concetto non trova però mai una definizione precisa, non ha cioè alcun confine preciso. Chi fa parte del “partito armato” e chi no? Sicuramente, nell’accezione usata dai quotidiani ne fanno parte le BR e Prima Linea, ma anche l’Autonomia (intesa come organizzata). Ma non si può certo escludere che qualcuno ci faccia entrare Lotta Continua e gruppi semi-legali. Insomma siamo di fronte a un’espressione dai contorni sfumati.
Il suo uso propone al lettore un’immagine unitaria del terrorismo di sinistra. Il vocabolo importante dell’espressione è “partito”. Richiama alla natura politica del fenomeno ma anche, per contrasto, alla sua extraparlamentarietà. Insomma come fa politica un partito extraparlamentare? Con azioni nella società e manifestazioni nella piazza, armandosi e lavorando all’insurrezione. E’ inoltre evidente che il fenomeno viene spostato su un terreno puramente politico e attiva tutta una serie di collegamenti semantici dei quali bisogna tener conto: a una nuova azione del “Partito armato” (che persegue sempre una strategia e conduce delle “campagne”) il governo e i partiti di governo sono chiamati a rispondere con delle contromosse.
Ma ciò che è più importante è proprio l’indefinitezza del concetto che fa passare nell’opinione pubblica l’idea che l’Italia si trovi di fronte a un movimento unitario: in questo modo un omicidio commesso da Prima Linea, uno successivo commesso dalle BR e una notte dei fuochi a Padova possono essere tutti attribuiti al “Partito armato”, avvallando ancora una volta la tesi investigativa di un collegamento stabile tra i diversi gruppi terroristici. E inoltre l’effetto ne viene in qualche modo moltiplicato poiché non ci si trova davanti alle concomitanti azioni violente di singoli gruppi ma a una strategia composta dalla sommatoria di tutti gli attentati che si riscontrano sul suolo nazionale.
Nella vicenda da noi analizzata l’espressione viene utilizzata quasi a dismisura. Il Partito armato è una specie di superstruttura che gli imputati di Padova, e Negri in particolare, dirigono e che interagisce attivamente con lo svolgersi delle indagini e del processo. I nuovi attentati sono la “risposta” del “Partito armato” all’inchiesta di Padova che diventa così il fattore scatenante delle nuove azioni di violenza.

La figura del “partito armato” ha un illustre precedente che qualche volta farà capolino tra le pagine dei quotidiani dedicate al 7 aprile. L’espressione sembra infatti nascere con l’occupazione di Mirafiori da parte di migliaia di operai nel marzo del 1973. In quell’episodio Negri crede di veder realizzato un primo embrione del “partito armato e di massa” e teorizza appunto una nuova figura, il “partito armato di Mirafiori”. «La realtà è che se da un lato alla Fiat vi è un intervento reiteratosi nel tempo delle BR, manca del tutto l’iniziativa e l’incidenza dei gruppi, e di PO in particolare. Che poi Potere Operaio e Lotta Continua si siano attribuiti grandi meriti in ordine all’occupazione di Mirafiori questo rientra nel rituale propagandistico dei gruppi» (35). Insomma nei fatti, almeno a seconda di Palombarini, il tono trionfalista di Potere operaio è assolutamente del tutto ingiustificato. Ma anche attorno a questo evento la divaricazione di interpretazione linguistica è massima. Da una parte (quotidiani e parte inquirente) il “Partito di Mirafiori” viene citato come esempio della concreta pericolosità insurrezionale di Potere operaio e dall’altra viene interpretato come una semplice “metafora”, una specie di mito fondatore (un po’ come Piazza Statuto) che accompagnerà Negri in tutte le sue successive elaborazioni teoriche.

Anni di Piombo. L’espressione “Anni di piombo” viene usata come una vera e propria cappa per coprire un intero decennio di fatti diversissimi tra loro. L’espressione è responsabile di una vera e propria mistificazione e falsificazione della realtà storica. “Anni di piombo” serve a uniformare un decennio di lotte sotto una veste di violenza. Gli anni di piombo, perciò, sono indifferentemente quelli del terrorismo delle Brigate Rosse, quelli dei volantinaggi a fine anni ’60 davanti al Petrolchimico per la salute dei lavoratori, quelli di Potere operaio e quelli dell’Autonomia. Come fossero tutti la stessa cosa e come se tutti avessero come unica matrice comune il piombo, quindi la violenza peggiore, quella delle armi da fuoco e delle P38. Nella nostra analisi l’espressione assume una certa frequenza solo nel 1984 con la sentenza di primo grado. Il “7 aprile” diventa, anche nella titolazione, un processo agli “anni di piombo”. In precedenza l’espressione non viene usata di frequente oppure viene applicata alla specifica realtà padovana, che ha appunto i “suoi” anni di piombo. A confermare l’identificazione dell’intero decennio con questa espressione ci sono vari passi dei quotidiani come, ad esempio, il Corriere della Sera dell’8 aprile 1984: «Chi avrà voglia di ricostruire la storia degli anni settanta — definiti “decennio di piombo” o “decennio di follia”…».

Le “sedicenti” Brigate Rosse. Il problema riguardante l’uso dell’aggettivo “sedicenti” travalica il caso 7 aprile. Parte da lontano, molto lontano e attraversa tutta la storia del PCI. Ma è importante anche per l’analisi di questa vicenda. Come si sa, il riconoscimento delle Brigate Rosse come gruppo che operava e nuotava nel mare storico e ideologico della sinistra, avviene da parte del PCI molto tardi. Per i primi anni le Brigate Rosse sono le “sedicenti” Brigate Rosse, un gruppo cioè che finge di essere di sinistra ma viene considerato manovrato da servizi segreti, forze e gruppi reazionari. Uno strumento insomma dell’anticomunismo. Come lo furono le bombe fasciste, Piazza Fontana e il caso Valpreda.
Il problema è legato a quella che è stata chiamata politica del “doppio binario”, al fatto che il PCI si ritrovi, dopo trent’anni di pratica socialdemocratica a dover fare i conti con una tradizione, almeno simbolica, di tipo leninista rivoluzionaria che rispunta alla sua sinistra sotto diverse forme, dall’Autonomia alle Brigate Rosse. E’ interessante osservare come l’utilizzo della parola “sedicenti” nel vocabolario comunista possa essere fatto risalire al 1943. L’episodio è raccontato da Massimo Pini nel suo libro “L’assalto al cielo”. Nel corso di quell’anno, durante mesi che preparano la svolta di Salerno, il PCI napoletano, caratterizzato da un sentimento antimonarchico fortissimo, si ritrova a dover fare i conti con una scissione interna.
In contrasto con i metodi autoritari di Eugenio Reale, un gruppo di militanti comunisti aveva costituito un’altra federazione del PCI a Napoli presso la sede del circolo degli autoferrotranviari in piazzetta Montesanto. Immediata la reazione del partito ufficiale che in una nota sul giornale Risorgimento del 28 ottobre 1943 metteva in guardia “le autorità e la popolazione contro eventuali atti inconsulti di sedicenti comunisti che non sono d’accordo con la politica di unità nazionale per la lotta contro il fascismo (36).

E’ questo uno dei primi usi di “sedicente” per bollare chi va contro la linea del partito. Il termine verrà utilizzato in seguito anche contro i troztkisti. Per il partito insomma, è sedicente comunista chi si professa comunista ma, agendo in contrasto con la linea ufficiale, lavora come agente reazionario contro la rivoluzione.

Questo uso della parola riemerge con la nascita del movimento. Nei primi anni Settanta il PCI vede con estremo sospetto ciò che si muove alla sua sinistra. Anche perché è indubbio che fin dai fatti di Piazza Statuto si sia andata sviluppando una corrente ostile alla sinistra del partito. Emerge quindi la necessità di marcare anche linguisticamente le differenze di posizione ed evitare un’emorragia di consensi a sinistra. Racconta sempre Pini:

Nell’interpretazione dei fatti di autori di area comunista quali Zupo e Marini Recchia, appare evidente la preoccupazione — la stessa che ha dato vita all’indagine giudiziaria di Pietro Calogero — di bollare di “anticomunismo” il movimento di Autonomia, operante alla sinistra del PCI: l’anticomunismo sarebbe eredità di Potere Operaio, gruppetto di piccolo-borghesi, esaltati dal sogno di poter comandare le masse. Messo in ombra tutto l’aspetto sociale delle lotte di massa dei tardi anni ’70, l’interpretazione di area comunista sottolinea le lotte al vertice per il controllo delle organizzazioni viste secondo un’ottica tipicamente elitaria: il gruppo dirigente di Potere Operaio conquista Autonomia, i “borghesi piccoli piccoli” di Autonomia conquistano il vertice delle BR. Se pure il pericolo maggiore del PCI “in mezzo al guado” viene dalla sinistra e dagli intellettuali anticomunisti piccolo-borghesi uniti, non può essere trascurato il fattore “centrale strategico” anticomunista che in qualche modo si ricollega alla strategia della tensione di marca neofascista: Autonomia, BR e queste forze sono in qualche modo tutte contro il PCI (37).

Nel 7 aprile, lo abbiamo già visto con l’uso della dimensione fascismo-antifascismo, il terrorismo o la violenza diffusa nata a sinistra sono ancora bollati come un fenomeno estraneo. Tutto ciò che è legato a questa storia diventa quindi “sedicentemente” di sinistra per evitare di confonderlo con il PCI. Anche Leo Valiani usa l’aggettivo in questi termini. Il 22 dicembre del 1979 sul Corriere della Sera scrive: «La lotta armata per una rivoluzione che avrebbe dovuto sostituire la democrazia liberale vigente con una dittatura sedicente rossa….».

Documenti clandestini. «Calogero nella sua requisitoria, aveva largamente analizzato l’enorme mole di documenti più o meno clandestini, tutti comunque di taglio politico ed organizzativo sequestrati agli imputati..» (Unità 10 settembre 1981). Ma può un documento essere (più o meno) clandestino? Un documento è un foglio di carta scritto. Per sua natura questo non può certo essere clandestino e quindi segreto. Questa semmai è una condizione attribuibile alle persone fisiche. Ma come sappiamo la requisitoria di Pietro Calogero si fonda per gran parte su documenti. L’ipotesi è che in essi vi sia la prova di un collegamento tra un’organizzazione semilegale (Autonomia) che avrebbe sviluppato un livello illegale (quindi clandestino) e un’altra organizzazione clandestina, le BR. Non è che dando l’aggettivo “clandestino” a un documento di Autonomia, per la proprietà transitiva, questa si trasforma in clandestina?
Il problema è più ampio e travalica l’espressione presa ad esempio. Si parla spesso anche di “documenti illegali”. Sembra che a volte si bolli di illegalità o clandestinità una parte per trasferire questa qualità al tutto.

I Cattivi Maestri. L’espressione “cattivi maestri” caratterizza il nucleo di docenti di Scienze politiche a Padova responsabili di aver seminato l’odio e i germi del terrorismo attraverso le proprie lezioni. Il “cattivo maestro” per eccellenza in Italia è appunto il professor Toni Negri. E’ una delle espressioni più stabili nel tempo: dal 1979 ad oggi non ha mai subito un declino e non è mai caduta in disuso.

Le notti dei fuochi. L’espressione indica le notti in cui Padova, tra il 1977 e il 1979, veniva scossa da “attacchi” (principalmente incendi di cassonetti e auto) in vari punti della città. Sui quotidiani è una delle cose che colpisce maggiormente, l’elemento “militare” di maggior impatto emotivo. L’espressione di per sé è già la prova dell’esistenza di una struttura che coordina gli attacchi. Velatamente l’espressione sembra richiamare da una parte a un elemento tribale (il fuoco, il rogo) e dall’altra a una violenza cieca e spietata di tipo nazista (i roghi dei libri,le notti dei cristalli). Ma l’espressione ha anche avuto un illustre precedente storico. Le “notti dei fuochi” nella storia italiana, almeno nell’accezione usata da Giampaolo Pansa in un libro che usa proprio questa espressione come titolo, sono infatti le notti in cui, tra il 1919 e il 1924, i fascisti assaltarono le sedi delle Camere del Lavoro, delle Leghe Contadine e delle Case del Popolo. Roghi appiccati insomma ai capisaldi del socialismo italiano. Il riferimento, anche se non lo abbiamo mai trovato esplicitato in nessun quotidiani, è ancora al fascismo.

I termini della rivolta. Insurrezione, banda armata, sovversione. I tre termini vengono usati indifferentemente dalla stampa quasi si trattasse della stessa cosa. Il progetto criminale attribuito agli imputati del 7 aprile va da un minimo (costituzione di banda armata) a un massimo (insurrezione armata contro i poteri dello Stato). Non sempre però i quotidiani dimostrano consapevolezza sull’uso di questi termini. Anche dal punto di vista giuridico la questione è parecchio complicata (per una completa trattazione in merito si rimanda al numero 23-24 di Critica del Diritto). Sia l’insurrezione che l’associazione sovversiva (la traduzione giuridica del concetto di sovversione) sembrano presupporre dei danni concreti all’ordinamento statale. L’associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale) prevede un “concreto pericolo per le strutture socio-economiche dello Stato” mentre l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato (articolo 284 del codice penale) dovrebbe coinvolgere un numero rilevante di persone con una congrua disponibilità di armi che permetta il rovesciamento dell’ordine costituito. Per non parlare dell’ipotesi, prospettata dallo stesso Calogero nell’intervista del 5 luglio al Corriere della Sera, della “guerra civile”. Si è di fronte insomma a concetti molto seri che oltre ad avere alle spalle una storia e un’elaborazione teorica, nel concreto implicano poi strumenti adeguati alla loro realizzazione. A riguardo dell’accusa di insurrezione armata i quotidiani italiani rimangono come a bocca aperta. Citano questo capo d’imputazione come prova massima della colpevolezza degli arrestati e come segno evidente del pericolo corso dalla nazione. Non si interrogano affatto, mai una volta, sugli elementi concreti che queste due accuse comportano: un’organizzazione cioè capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, un arsenale di armi in grado di intaccare le strutture socio-economiche dello Stato. Non si parla insomma di due attentati incendiari a fabbriche del nord, di qualche molotov, qualche fucile e qualche pistola. I termini insurrezione, rivoluzione e sovversione rimandano invece a un elemento quantitativo ben preciso.
Ma la confusione è evidente e una chiarificazione non avviene mai. Tanto che a volte si trova tradotto il termine “insurrezione” con quello di “golpe rosso”. Come golpe (l’azione di poche persone) e insurrezione (fatto di massa) fossero la stessa cosa e gli elementi indiziari dell’uno valessero anche per l’altro.

Un vocabolario di guerra e l’elemento tribale. Va infine notato che il linguaggio dei quotidiani attinge a piene mani dal vocabolario militare. Sia per descrivere l’organizzazione del terrorismo (quadri intermedi, generali, attacchi, talpe e spie) sia per descrivere la reazione dello Stato e gli effetti che essa produce (i disertori). Per descrivere il mondo dell’Autonomia padovana si fa ricorso invece a parole che ne esaltano il carattere primitivo e la semplificata strutturazione sociale (la tribù, il covo, il tam-tam).

4. Interventismo dei magistrati

Il 7 aprile prefigura forse, nella storia del giornalismo italiano, un salto di qualità nei rapporti tra stampa e magistratura. La pensa così Giovanni Palombarini quando parla del gioco di sponda tra giornalisti e magistrati per un continuo rilancio e sostegno dell’inchiesta. Questo elemento è stato notato in effetti da molti. L’attenzione è stata incentrata soprattutto sull’attitudine intervistatoria del silenzioso PM Pietro Calogero. Ma è l’intera magistratura nel suo complesso a dimostrare una inguaribile tendenza ad apparire, spiegare ed indirizzare l’opinione pubblica. Gli effetti riguardano principalmente un deterioramento di un sano rapporto tra la stampa e la magistratura.

Il rapporto con i media si è talmente deteriorato che, ormai, in molti casi non è la stampa a controllare l’operato dei giudici, ma è il giudice che, al contrario, pilota la stampa attraverso la diffusione di notizie, attraverso rapporti privilegiati con i giornalisti (38).

Nel caso specifico del 7 aprile, oltre a Calogero, si fa notare il procuratore capo Aldo Fais che, come afferma Antonio Ferrari, è una delle “fonti” dei cronisti padovani. Il procuratore interviene spesso per assicurare l’opinione pubblica dell’esistenza delle prove a carico degli imputati. E a volte, come nel brano riportato di seguito che è tratto dall’Unità del 27 maggio 1979, allude a sviluppi e nuovi importanti risultati che sarebbero dietro l’angolo:

Può farlo pensare una dichiarazione del procuratore capo Aldo Fais, il quale ieri, nel corso della conferenza stampa ha detto: “Alle volte scopriamo più di quanto cerchiamo…”. Ed ha aggiunto:”L’inchiesta avrà ulteriori sviluppi, anche territoriali”. Fais si è incontrato con i giornalisti in una specie di supplenza della conferenza stampa settimanale dei giudici istruttori che il titolare dell’istruttoria, Palombarini, ha temporaneamente sospeso, in attesa che avvengano le elezioni. Dell’assenza di un minimo di informazione da parte della magistratura ha subito approfittato il collegio di difesa che l’altro giorno ha tenuto l’ennesima conferenza stampa per ripetere che l’istruttoria in corso altro non è se non una manovra preelettorale organizzata dal PCI per criminalizzare ogni dissenso. Ai difensori ha replicato Fais con durezza: “Quando i militanti del PCI hanno avuto notizie utili in riferimento ad attentati ed episodi specifici, le hanno sempre riferite alla magistratura, come hanno fatto anche altre persone, ad esempio i membri della consulta provinciale per l’ordine democratico. Questo è il preciso dovere di ogni cittadino: vorrei che tutti facessero così. Ma è una cosa ben diversa dalla strumentalizzazione. Quella della difesa è un montatura in malafede”.

Come si può vedere il procuratore capo, non si limita alle considerazioni sull’inchiesta in corso, arriva ad additare all’opinione pubblica i comunisti come esempio di buoni cittadini. Che poi sia Fais a dover difendere il PCI dagli attacchi del collegio di difesa (che ha tenuto la “ennesima” conferenza stampa), è davvero singolare. Quando scoppia la famosa “guerra tra giudici”, Fais si schiera senza esitazione al fianco di Calogero. Le sue dichiarazioni saranno sempre a sostegno della tesi accusatoria. E per farlo usa anche una certa fantasia linguistica come quando per il blitz del marzo 1980 parla di prove “irreversibili”.
A un anno dal 7 aprile Aldo Fais viene intervistato da Repubblica. Paolo Pagliaro, il cronista di Repubblica ci dice molto del carattere del procuratore. «Il procuratore Aldo Fais è seduto dietro la sua ampia scrivania, al terzo piano del Palazzo di Giustizia, e, come usa fare da un anno a questa parte quando si trova davanti a un cronista, detta. Detta un comunicato invisibile, con voce solenne e a tratti perfino commossa». E Fais parla dei suoi figli, la cui foto è sulla scrivania, parla della necessità di lavorare ogni giorno per dare a loro un futuro migliore in un mondo che «esprima in concreto i valori democratici che i combattenti per la libertà hanno riscattato a prezzo di sangue». Il 7 aprile per Fais è un «risultato positivo. Parlo di risultato positivo, non di successo: successo è una parola che si addice alle dittature, non agli ordinamenti democratici». I richiami alla resistenza e ai valori democratici sono abbastanza frequenti in Fais. «Dal 7 aprile ad oggi qualcosa, lo ha particolarmente colpito, ferito, amareggiato?», chiede il cronista. «Sì, certe campagne di stampa denigratorie; ma soprattutto le polemiche e le offese seguite al telegramma di Pertini. Quel telegramma non era firmato dal capo dello stato, ma da un uomo della Resistenza».
Come si intuisce, il valore di certe dichiarazioni travalica e di molto le competenze giudiziarie del procuratore. Quella proposta dai magistrati alla stampa è una lettura tutta “politica” del caso 7 aprile. Per contrasto invece le interviste o gli interventi di esponenti politici (come Pecchioli o Mancini) sono incentrate sui particolari giudiziari, piuttosto che sul dato politico. Almeno sui quotidiani sembra di trovarsi di fronte ad una supplenza della magistratura.
A Padova avrà il suo momento di gloria anche il giudice Nunziante, in occasione delle sue dimissioni dal collegio di Palombarini. In quell’occasione l’Unità dedicherà ampissimo spazio alle sue polemiche nei confronti del giudice istruttore (si veda ad esempio il brano riportato a pagina 218).

A Roma i magistrati parlano meno (ma sparlano evidentemente di più). Più che altro, come per la requisitoria Ciampani, a finire direttamente impaginati sulle pagine dei quotidiani italiani sono gli atti ufficiali che comunque, come abbiamo visto, contengono dichiarazioni anche di carattere più generale.
Si segnala invece per le interviste il Procuratore Generale Guido Guasco che a metà maggio 1979 rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui dichiara che «ce n’è abbastanza per mandarlo subito davanti a una corte d’assise» (riferito a Toni Negri). Nel gennaio del 1980 Guasco tornerà a parlare. Sono passati mesi dalla precedente dichiarazione e la tesi della telefonata a casa Moro sembra essersi indebolita. Un po’ perché i magistrati gli hanno sottratto importanza affermando che comunque vada la perizia ci sono altre importanti prove che dimostrano il collegamento di Negri con il sequestro Moro e un po’ perché la liberazione di Nicotri ha reso meno forte questa idea. Repubblica il 3 gennaio pubblica in forma quasi di intervista ampi stralci della requisitoria di Guido Guasco che invece alla tesi della telefonata ci crede eccome. Va notato per inciso che in questa data la magistratura romana, pur non avendo ancora reso pubblica la cosa, ha in mano già tutte le perizie foniche.

Toni Negri, Franco Piperno e Lanfranco Pace: per il Pg Guido Guasco sono i “cervelli” delle Brigate Rosse che hanno gestito il caso Moro, anche se non si può escludere che abbiano fatto parte di quell’ala minoritaria che si sarebbe adoperata per salvare la vita del prigioniero […] Dell’”affare 7 aprile” Guasco comincia ad occuparsi a pagina 64 della sua requisitoria scritta. Il magistrato, riferendo dell’arresto di Negri, ricorda che “segnalazioni di persone degne di fede, che avevano avuto modo di conversare con lui e di conoscerne e ricordarne le caratteristiche foniche, gli attribuivano la telefonata fatta a nome e per conto delle Brigate Rosse” […] Secondo il Pg, anche Negri — come Piperno e Pace — ebbe contatti con “dirigenti della segreteria del PSI durante il sequestro Moro”. […] “Del resto” scrive ancora il giudice, “il fatto che Negri sia l’autore della telefonata trova riscontro nel fatto che il giornalista Ernesto Viglione riferì che l’on. Piccoli aveva dato a suo tempo notizia di un incontro avvenuto nella capitale lombarda tra l’on. Craxi, Negri e altre due persone…Comunque gli indizi sono stati rigorosamente e definitivamente sostanziati di valore probatorio dalla perizia fonica condotta in America dal prof. Oscar Tosi”. Ricordate le conclusioni delle perizie il Pg Guasco afferma che “se la voce del telefonista non fosse di Negri, da tempo sarebbe stata recapitata al magistrato una bobina con la registrazione di quella del reale sconosciuto terrorista al fine di mettere in tutta evidenza l’autorità giudiziaria di fronte alla macroscopia del loro errore”.

Le considerazioni possibili sono molte. Alcuni ragionamenti del PM singolari: l’onere della prova a chi spetta? Poiché le BR non si denunciano, allora è stato Negri?

NOTE

29) P.Violi, I giornali dell’estrema sinistra, Milano, Garzanti, 1977, p.20.
30) Ivi, p.20.
31) Ivi, p.21.
32) Ivi, p.26.
33) Ivi, p.29.
34) Ivi, pp. 38-39.
35) G.Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia, cit., p. 101
36) M.Pini, L’assalto al cielo, Milano, Longnesi, 1990, p.22
37) Ivi, p.251.
38) L. Ferrajoli, Emergenza terroristica e cadute della cultura garantistica, in AA.VV, “La magistratura di fronte al terrorismo e all’eversione di sinistra”, Milano, Franco Angeli, 1982 p. 132.

(23 – CONTINUA)