Platform workers, la direttiva europea irrita le imprese

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28 Marzo 2023

A febbraio l’Europa ha fatto un passo avanti verso la “presunzione di subordinazione” per i lavoratori delle piattaforme, ma prima che l’iter della direttiva si completi la lobby delle piattaforme cercherà di neutralizzarne gli aspetti più sgraditi. Uno scontro che riguarda milioni di lavoratori che in questi anni hanno lottato e strappato risultati.

Il 2 febbraio 2023 il Parlamento europeo ha approvato una relazione sulla proposta di direttiva della Commissione europea sui lavoratori delle piattaforme che mira a intodurre una “presunzione di subordinazione” del rapporto di lavoro e ad aumentare la trasparenza degli algoritmi. Si tratta di milioni di lavoratori, rider, autisti di società di carpooling come Uber, ma anche microworker che lavorano a casa davanti a un PC pagati pochi centesimi a clic, ad esempio moderando i contenuti dei social network oppure addestrando algoritmi a riconoscere immagini.

La “presunzione di subordinazione”

Dopo mesi di ardui negoziati il compromesso raggiunto tra gli europarlamentari sotto la guida dell’italiana Elisabetta Gualmini (PD) ha ottenuto 376 voti favorevoli e 212 contrari. Tra gli obiettivi indicati nel documento la lotta contro l’inquadramento dei gig worker come falsi lavoratori autonomi, la tutela di diritti elementari come malattia, ferie e salari regolati da leggi e contratti collettivi, il divieto alle piattaforme di affidare le decisioni inerenti le condizioni di lavoro esclusivamente agli algoritmi e l’obbligo di condividere più informazioni con le autorità dei paesi-membri.

Per inquadrare correttamente il voto del 2 febbraio, tuttavia, bisogna collocarlo nel quadro del tortuoso iter legislativo comunitario. La direttiva licenziata dalla Commissione Europea alla fine del 2021, come tutte le direttive europee, fissa obiettivi vincolanti, ma affida ai paesi-membri il compito di intervenire sulla legislazione nazionale per realizzarli. Il testo varato il 2 febbraio, dunque, è semplicemente la posizione negoziale su cui il Parlamento Europeo tratterà con la Commissione e il Consiglio (che riunisce i ministri competenti dei paesi-membri) nel cosidetto trilogo, una discussione informale tra i tre organismi che precede il dibattito in Consiglio. Il tempo previsto per l’approvazione delle direttive normalmente è due anni, dopo di che, se vengono approvate, la palla passa ai Parlamenti nazionali. In caso di intoppi sono previste anche una seconda lettura in Parlamento, in Consiglio e, se necessario, una procedura di conciliazione. Insomma il dispositivo approvato il 2 febbraio è tutto fuor che una misura definitiva e ciò lascia spazio alla pressione delle piattaforme per smussarne gli aspetti più sgraditi.

Una nota delle piattaforme già prima del 2 febbraio esprimeva preoccupazione “per l’impatto che la proposta potrebbe avere sui rider, sui ristoranti e sull’economia europea in generale”. Secondo le imprese “Un recente studio di Copenhagen Economics prevede che la riclassificazione dei rapporti di lavoro in tutta l’UE potrebbe spingere fino a 250.000 persone a decidere di smettere di fare le consegne perché non avrebbero più la flessibilità che cercano”. Secondo le aziende, infatti, “Un recente sondaggio condotto su 16.000 corrieri in tutta l’UE ha rilevato che la flessibilità è il motivo principale per cui scelgono di lavorare con le piattaforme”. Le piattaforme additano come esempio negativo la Spagna, dove già dal 2021 la Legge sui rider ha affrontato il tema della subordinazione: “In Spagna, dove la riclassificazione è stata promossa contro la volontà delle imprese di logistica, rappresentanti di queste ultime stimano che 8.000 persone oggi siano senza lavoro”.

Ludovic Voet, segretario confederale della ETUC, la Confederazione Europea dei Sindacati, a cui abbiamo chiesto di spiegarci la posizione del sindacato sulla discussione a Bruxelles, definisce “tesi fuorviante” e non vera quella secondo cui la presunzione di subordinazione implicherebbe una riclassificazione di tutti i lavoratori, anche quelli autenticamente autonomi, come dipendenti.

Le insidie dei prossimi mesi

Lo scontro si concentra principalmente su questo punto. La Direttiva introdurrebbe la presunzione legale che i lavoratori delle piattaforme siano subordinati, ma attraverso quali meccanismi? La proposta della Commissione prevede che essa scatti quando si verificano almeno due delle cinque condizioni elencate all’articolo 4 che attestano il controllo esercitato dalla piattaforma sul lavoratore (determinazione della retribuzione, imposizione di regole, supervisione sull’esecuzione del lavoro, limitazioni alla libertà del lavoratore di organizzarsi da sé e di procacciarsi clienti propri).

Nella versione licenziata dalla Commissione, ci fa osservare Voet, “sarebbe il lavoratore a dover accertare la relazione tra sé e la piattaforma e ad avviare una procedura se ritiene che siano verificate almeno due delle condizioni”. Ma si tratta di una richiesta inaccettabile per il sindacato europeo, che si oppone a “qualunque norma la cui applicazione richieda al lavoratore di avviare una procedura contro la piattaforma per mettere in discussione il proprio status di lavoratore autonomo, perché così facendo si ignora la vulnerabilità di questi lavoratori qualora intraprendano un’azione legale e li si scoraggia a esercitare i loro diritti”.

Gli emendamenti approvati rappresentano un compromesso tra i parlamentari più vicini alle imprese e quelli più sensibili all’esigenza di proteggere i lavoratori: nel testo varato il 2 febbraio anche “Le autorità nazionali applicano la presunzione quando rilevano che possa esserci un errato inquadramento delle persone che lavorano per le piattaforme”. Ma al sito Euractiv un anonimo rappresentante delle piattaforme ha dichiarato che “212 voti non sono un grande successo per Elisabetta Gualmini ed evidenziano un Parlamento Europeo piuttosto diviso, il che potrebbe lasciare meno spazio di manovra nel corso del trilogo”. Il PPE, in particolare, appare spaccato e oltre metà dei suoi eletti avrebbe votato contro la misura.

Leïla Chaibi, europarlamentare francese eletta nelle file de La France Insoumise di Jean-Luc Melenchon, tra le più attive nella difesa dei lavoratori, è pessimista, perché la posizione della presidenza svedese del Consiglio si annuncia sfavorevole. “Sappiamo già che il loro testo sarà meno ambizioso della relazione del Parlamento e persino della proposta della Commissione”, dichiara in un’intervista, “A marzo dovrebbe essere raggiunto un accordo, ma non ci aspettiamo granché”, osserva. Per questo punta a “bloccare i negoziati fino all’insediamento della presidenza spagnola a luglio”. Tuttavia una presidenza spagnola non cambierebbe i rapporti di forza in seno al Consiglio, dove “c’è un blocco di Stati nettamente contrari alla Direttiva, come la Svezia, i Paesi baltici e la Francia”, precisa. Il vero problema, osserva, Ben Wray, coordinatore di Gig Economy Project, intervistato da Paris Marx nel podcast Tech won’t save us, è che “per i lavoratori fare lobbying sui parlamentari europei è più facile che fare lobbying sugli Stati”.

“Purtroppo constatiamo che la narrazione fasulla delle piattaforme viene difesa da molti Stati”, ci conferma Voet, “La presidenza ceca dell’UE a dicembre ha avanzato una proposta di mandato negoziale che rendeva la presunzione di subordinazione e l’eventuale riclassificazione dei lavoratori come dipendenti molto complicata, portando a 3 su 5 le condizioni necessarie e stabilendo che fosse il lavoratore a dimostrarne la sussistenza o l’ispettorato del lavoro ad attivarla. Inoltre la proposta dava ai paesi-membri la facoltà di non applicarla qualora ‘fosse chiaro che sarebbe stata confutata in modo efficace’ dalle piattaforme”.

La proposta ceca è stata bocciata grazie alla resistenza di alcuni paesi: a ottobre i ministri del lavoro di Spagna, Olanda, Belgio, Italia, Lussemburgo, Danimarca, Portogallo, Slovenia e Malta hanno scritto alla presidenza per chiedere “una direttiva più ambiziosa per quanto riguarda i diritti dei lavoratori”. L’Italia, dopo l’insediamento del governo Meloni, ha cambiato posizione e ha votato a favore della proposta ceca.

Pochi giorni fa ancora Euractiv ha pubblicato alcune anticipazioni sull’ultimo compromesso proposto dalla presidenza svedese: la presunzione legale e, dunque, l’assunzione a tempo pieno scatterebbero se si verificano tre condizioni di subordinazione su sette e la possibilità che le autorità nazionali deroghino all’obbligo di applicarla, proposta dalla presidenza ceca, verrebbe limitata.

Dunque un dibattito tutt’altro che risolto, in cui anche la proposta più avanzata in campo, quella approvata dall’Europarlamento e salutata positivamente dal sindacato europeo, presenta nodi insoluti. Voet ce ne indica due: la presenza straordinaria di lavoratori stranieri senza documenti, che saranno esposti al rischio di espulsione se vorranno far valere i diritti sanciti dalla Direttiva e la necessità di estendere i diritti di informazione, partecipazione dei lavoratori e contrattazione collettiva in materia di management algoritmico anche ai lavoratori delle aziende tradizionali, nonché di applicare la “presunzione di subordinazione” anche ad altri lavori non standard. Insomma l’attuale discussione dovrebbe essere l’occasione per ragionare su regole più generali da applicare a un’organizzazione del lavoro che cambia rapidamente sotto la spinta dell’innovazione tecnologica.

A proposito del monito di Voet, pochi giorni fa sui social italiani è rimbalzata la notizia che i carabinieri hanno effettuato controlli in tutta Italia fermando i rider, chiedendo loro i documenti e fotografando gli account mediante i quali si connettono alle piattaforme, nel quadro di un’inchiesta sul caporalato digitale: alcuni personaggi aprirebbero più account e li cederebbero a lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno in cambio di una percentuale sugli utili. Circolano dati secondo cui più del 10% dei lavoratori stranieri è soggetta a questo tipo di pratica. Come si tutela chi decide di denunciarla?

28 milioni di lavoratori

Nel rapporto Digital Labour Platforms in Europe. Mapping and business models (2021) l’UE ha censito 516 piattaforme attive nell’UE a 27 (marzo 2021) e un giro d’affari ancora relativamente ridotto, 14 miliardi di euro, ma in rapida crescita: era 3 miliardi nel 2016. I lavoratori sono 28 milioni (molti part-time e con altri lavori), di cui il 70% a bassa qualifica, e se nel 2019 nelle loro tasche erano finiti 7 degli 11 miliardi di euro di fatturato (oltre il 60%), l’anno dopo sono stati solo 6 su 14 (poco più del 40%). Insomma i ricavi sono aumentati di 3 miliardi, ma le retribuzioni sono scese di uno, nonostante i lavoratori abbiano dovuto operare in condizioni rese proibitive dalla pandemia.

L’utilizzo del lavoro autonomo certo aiuta le piattaforme a tenere basso il costo del lavoro. Il 92% delle piattaforme inquadra i propri lavoratori come autonomi e il 93% delle entrate dei lavoratori proviene da contratti di questo tipo, nonostante gli autori dello studio affermino che tre quarti dei lavoratori, in realtà, godano di autonomia limitata, in particolare nei servizi taxi e di consegna a domicilio.

Secondo Fairwork Foundation, una ONG con sede a Londra, 4 delle 6 piattaforme più note in Francia (Deliveroo, NaoFood, Stuart e UberEats) e 3 su 5 in Belgio (Deliveroo, Top Help, Yoopies) pagano meno del salario minimo legale. Nonostante la Rider Law anche in Spagna i lavoratori guadagnano circa 3 euro a consegna e sono costretti a lavorare 12 ore al giorno per far quadrare i conti. Mentre in Germania per far fronte al problema dei bassi salari e, contestualmente, all’esigenza di organizzare i lavoratori è nata l’idea di Payday, di una sorta di cassa di resistenza per consentire a chi è impegnato sindacalmente di non essere penalizzato dalla perdita di turni di lavoro.

Ormai anche una parte dei driver Amazon può essere annoverata, a tutti gli effetti, tra i platform worker. Da qualche anno, infatti, il colosso di Seattle utilizza fattorini “autonomi”, che si connettono alla app Amazon Flex: è sufficiente avere la patente ed essere proprietari di un mezzo. In Germania, secondo Amazons Lezte Meile, uno studio condotto dalla Rosa Luxemburg Stiftung e dalla DGB, la centrale sindacale tedesca, della Turingia, i driver “autonomi” sono utilizzati per coprire i picchi e le fasce orarie lasciate scoperte dalle ditte d’appalto.

Per lavorare con Amazon i corrieri autonomi in Germania devono aprire un’attività, pagarsi le prestazioni sociali e avere una licenza, di cui spesso però sono privi, per cui rischiano sanzioni e, se sono studenti stranieri, la revoca del permesso di soggiorno per studio. Il lavoro è molto flessibile. A volte i turni di 3-4 ore vengono dati con settimane di preavviso, a volte si dice una settimana prima che bisogna trovarsi nel tale posto alla tale ora e solo un’ora prima del turno vengono comunicati i giri. Il salario è 25 euro l’ora, con turni al più di 4 ore per un massimo di 6 giorni, per cui la retribuzione arriva a 2.600 euro, che coprono anche costi d’impresa e assicurazioni. Secondo il sito Accountable.de dedotti i costi la paga si riduce almeno a 10 euro l’ora.

Sentenze contrastanti

Nel vuoto normativo a cui l’UE oggi cerca di rimediare si è inserita la magistratura, a cui lavoratori e sindacati si rivolgono per avere risposte su temi diversi, inclusa natura del loro rapporto di lavoro. Ma anche i pareri dei giudici divergono.

Nel settembre 2020 la Corte Suprema spagnola è intervenuta sul caso di un rider di Glovo sentenziando che “poiché Glovo fissa le condizioni per l’erogazione dei propri servizi ed è proprietaria dei beni necessari a erogarli”, cioè utilizza fattorini “inseriti nella propria organizzazione professionale” i suoi rider sono lavoratori dipendenti.

Pochi mesi dopo il Tribunale di Palermo, in Italia, ha fatto la stessa cosa, reintegrando un lavoratore licenziato e condannando Glovo a versargli lo stipendio per il periodo non lavorato e le differenza tra la retribuzione percepita nel periodo di lavoro e i minimi salariali fissati dal contratto collettivo del commercio.

Nel giugno successivo una Corte d’Appello britannica ha respinto il ricorso presentato dal piccolo sindacato IWGB, a cui nel 2017 Deliveroo aveva negato un tavolo negoziale perché i suoi collaboratori sarebbero lavoratori autonomi. L’IWGB non si è arresa e ha annunciato che presenterà un ulteriore ricorso alla Corte Suprema.

Pochi giorni fa, il 24 marzo, anche la Corte Suprema olandese ha stabilito che i rider di Deliveroo, che nel frattempo ha abbandonato il paese, erano lavoratori subordinati, anche se erano stati reclutati dall’azienda come prestatori di lavoro autonomi, perché il rapporto di lavoro era basato sull’autorità dell’azienda, che gestiva le loro azioni attraverso la app a cui erano loggati.

Anche il sindacato è diviso

Le contraddizioni non mancano neanche tra le organizzazioni dei lavoratori. In Gran Bretagna l’IWGB ha contestato l’accordo del maggio del 2022 in cui Deliveroo riconosce al sindacato GMB la possibilità di negoziare a nome degli iscritti, ma si conferma che i rider sono lavoratori autonomi.

Qualcosa di simile è successo in Italia, ma a parti invertite: nel settembre 2022 la piccola confederazione UGL, infatti, ha siglato con Assodelivery, associazione di categoria delle piattaforme, un contratto nazionale contestato da CGIL, CISL e UIL, che negano la rappresentatività dell’UGL, visto il ridotto numero di iscritti nel settore.

La frattura emersa tra le organizzazioni sindacali rischia di diventare un problema in più per il sindacato tradizionale, in un settore con caratteristiche sui generis, in cui da anni ormai emergono nuove forme di organizzazione dei lavoratori, spesso collegate tra loro in network internazionali. Nel 2018 lo European Trade Union Institute ha pubblicato un opuscolo intitolato proprio Will trade unions survive in the platform economy. Emerging patterns of platform workers’ collective voice and representation in Europe (I sindacati sopravviveranno nell’economia delle piattaforme? Modelli emergenti per dar voce e rappresentanza collettiva ai lavoratori europei delle piattaforme).

Ben Wray, in una delle newsletter settimanali di Gig Economy Project sostiene che i sindacati devono prendere sul serio il tema della gestione algoritmica dei dati. “Un fattorino che consegna cibo o un autista che trasporta persone sono anche data worker: lavorano coi dati e il loro lavoro lascia una traccia digitale. Il motivo per cui difficilmente i lavoratori della gig economy oggi pensano alla propria situazione in questi termini è che sono davvero pochi i casi in cui si curano dei dati e li usano per difendere i propri interessi e diritti”. Inoltre Wray sottolinea che  “Oltre il 60% dell’attività sindacale sulla trasparenza e la rendicontabilità algoritmiche consta di analisi, sensibilizzazione ed elaborazione di strategie/principi, il 12% di campagne e sindacalizzazione e poco meno del 10% di formazione e addestramento. Non è possibile trovare un solo esempio al mondo di contratto collettivo nazionale che ‘citi espressamente trasparenza e rendicontabilità degli algoritmi’”.

Deboli ma combattivi

Come sottolinea il rapporto dell’ETUI citato, nonostante siano fragili ed esposti alle ritorsioni delle aziende, i lavoratori delle piattaforme in questi anni hanno dato prova di saper disturbare efficacemente la capacità di operare delle piattaforme (disruptive capacity). Un’efficacia basata in parte sull’utilizzo della stessa tecnologia che usano per lavorare come strumento di organizzazione collettiva. A ciò si aggiungono altri fattori: l’assenza di regole sugli scioperi favorisce il ricorso all’azione diretta ed eventuali reazioni ritorsive da parte dell’azienda sono meno efficaci, perché in molti casi il lavoro per le piattaforme non è l’occupazione principale. Infine l’azione sindacale si è dimostrata capace di rovesciare la retorica delle piattaforme, basata sui magnifici effetti dell’innovazione digitale e sulla loro “forza democratizzante”.

Negli anni i lavoratori hanno imparato a sfruttare sempre meglio questi punti di forza. Ce lo conferma Kurt Vandaele, autore del rapporto ETUI: “Certo, non è un caso che le azioni pianificate di sciopero nelle aziende di food delivery si svolgano il venerdì sera o nel fine settimana, quando la domanda è elevata”. Del resto la forza dei lavoratori riflette in qualche modo la vulnerabilità di alcune imprese del settore. Per quanto riguarda il food delivery, ci spiega Vandaele: “In futuro si attendono più iniziative di carattere regolatorio tese a portare più stabilità nel settore. Ma ciò potrebbe far sì che il modello di business di alcune di queste piattaforme si riveli poco redditizio, anche a causa della crisi indotta dal carovita”. Una situazione che per il ricercatore dell’ETUI in realtà è già presente: “È chiaro che in questo settore di rado si fanno profitti e che la maggior parte delle piattaforme di food delivery continua a operare grazie agli investimenti di venture capital”, scommesse ad alto rischio fatte più sulla crescita del settore che sulla sua redditività.

Insomma in un segmento di lavoratori strutturalmente debole sia nel mercato del lavoro (per l’elevata offerta di manodopera) sia nel “posto di lavoro” (per l’evidente asimmetria dei rapporti di forza) collettivi autorganizzati e organizzazioni sindacali più tradizionali si sono dimostrati capaci di compensare questa debolezza generale sfruttando le poche condizioni favorevoli, riuscendo a conquistare con le proprie forze piccoli miglioramenti e ad attirare una diffusa solidarietà su di sé, tanto da smuovere persino una politica ormai sorda alle ragioni del lavoro. Più che la Direttiva in sé è questa situazione che rende la discussione in Europa interessante.

L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 24 marzo.

TAG: direttiva europea, ETUC, ETUI, food delivery, Kurt Vandaele, Ludovic Voet, platform worker
CAT: Precari

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